Critica

 JACOPO DA SAN MARTINO: RICERCA E SPIRITUALITA’, TRA IMMAGINI “BISBIGLIATE” E TRACCE SOSPESE.


di Paola Busani
 

Il lavoro di Jacopo Da San Martino nasce da un’inquietudine, da una domanda di senso che la
società contemporanea con la sua frenesia a volte rende difficile colmare. Per questo le sue
opere sono frutto di un’incessante ricerca tecnica, espressiva e di contenuto, tutti aspetti
strettamente collegati e interdipendenti.
Ogni opera parte da un contatto diretto con la realtà attraverso il mezzo fotografico che, si sa,
richiede l’effettiva contiguità con il soggetto da ritrarre e porta in sé ‐ a livello concettuale
come di puro senso comune ‐ l’idea di attimo fermato e di presenza in assenza di qualcosa o
qualcuno. La fotografia viene poi lavorata per essere impressa sul supporto, cioè la tavola di
legno opportunamente trattata per accogliere su di sé l’immagine in modo duraturo.
Se questa immagine originaria è colta velocemente, secondo una momentanea ispirazione e
attraverso un mezzo meccanico, la successiva trasposizione sul legno avviene invece con la
tecnica manuale e lenta per eccellenza: il disegno in punta di matita, attraverso cui, tratteggio
dopo tratteggio, l’immagine si materializza.
Il tempo dell’artista ‐ tempo di lavoro e, insieme, di riflessione ‐ e quello dell’immagine
vengono così sovrapposti al “tempo” della tavola di legno. Ecco che allora appare evidente il
motivo della scelta del materiale, non casuale e non indifferente a fini espressivi: le tavole
portano, infatti, su di sé le tracce dell’età dell’albero da cui provengono, del tempo lento e
costante della natura. Natura per cui l’artista mostra un grande rispetto: infatti, le venature
del legno sono lasciate volutamente visibili, anzi spesso diventano parte della composizione,
come nell’opera Pane, dove una venatura curva ci restituisce da sola la rotondità di una
pagnotta o nei paesaggi (come Altopiano e Nei tuoi occhi) dove le tracce del legno ricordano
sbuffi di nuvole nel cielo.
L’effetto di questo processo creativo è un’immagine in fieri che sembra affiorare lentamente
dalla superficie naturale, come se da sempre questa l’avesse custodita in sé, ma solo la mano
dell’artista potesse rendercela visibile. Senza dimenticare che non è una visibilità piena, da
luce diurna, ma è appena accennata, <bisbigliata> ci dice l’artista.
Perché la poetica di Da San Martino nasce da una ricerca spirituale ‐ la domanda di senso di
cui parlavamo all’inizio ‐ un anelito a una certezza non ancora raggiunta. Anelito che non si
può certo esprimere in immagini ben definite, “urlate” ‐ per rimanere nella metafora coniata
dall’artista ‐ quali potrebbero essere fotografie ad alta definizione o tavole dipinte con vivaci
colori a olio.
Questa spiritualità è da sempre presente nella vita e nel lavoro dell’artista, ma si è venuta
rafforzando durante il Master in arte sacra organizzato dalla Fondazione Stauròs e conseguito
nel 2009 presso il santuario di San Gabrielli in Abruzzo, sotto la guida dei padri spirituali e di
un artista d’eccellenza qual è Omar Galliani, suo Maestro già dal tempo dell’Accademia a
Carrara.
Successivamente a questa esperienza nascono le opere esposte dal 25 novembre presso
MuseOrfeo ‐ Home Gallery project di Bologna provenienti quasi tutte da una precedente
personale presso la Fondazione Banca Del Monte di Lucca chiamata Segni e dedicata a Santa
Zita, patrona della città. Quest’umile e povera ragazza del Duecento non è mai rappresentata
direttamente, ma sempre attraverso immagini che ne evocano la santità, come tracce di una
realtà sospesa tra questo mondo e quello divino. Così il pane e i fiori riconoscibili nelle opere,
non sono solamente ciò che noi conosciamo ma diventano i segni, appunto, attraverso cui il
divino si è fatto presenza tra gli uomini per mezzo della Santa. E insieme simboli del divino
stesso: il pane come carne di Cristo, avvolto in un panno a evocare la sacra Sindone (Pane,
vedi fig.); i gigli del bellissimo Ecce ancilla domini come simbolo della Madonna che sembrano
cadere repentini dall’alto a indicare una santità non cercata e di cui, in fondo, si sopporta tutto
il peso.
Segni di cui l’artista è alla continua ricerca, come appare evidente in un’altra opera, (Beata), in
cui si scorge un muro spaccato in forma di Croce, per poi scoprire che è il muro di una chiesa
bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale.
Oppure negli stessi paesaggi che già di per sé alludono a un Mistero che sta oltre ad essi, di cui
le opere si fanno veicolo fortemente significante.
Le opere di Jacopo Da San Martino sono l’inizio di un percorso in costante crescita. Alla ricerca
delle infinite tracce della nostra realtà che l’artista deposita sulle sue tavole di legno, come
manifestazione di una realtà altra, trascendente. Tracce quindi riconoscibili, ma insieme mai
affermate con certezza assoluta.


"DA SAN MARTINO A BOLOGNA"
di Micol Argento

Al “Museo Orfeo” di Eugenio Santoro, in via Orfeo 24, a Bologna, ultima personale di Jacopo da San Martino.
Jacopo Da San Martino, artista lucchese, ha proposto diverse monografiche in Italia. Allievo di Omar Galliani per la Rassegna Salvi, curata da Mariano Apa, ha esposto a Sassoferrato, insieme allo stesso Galliani, nel 2010. Nel 2011 era presente al Padiglione Accademie di Belle Arti della Biennale di Venezia. Dal 2009 al 2011, all’interno del ciclo “Geografie del Decalogo” dell’Accademia di Roma, ha esposto a Pereto (provincia dell’Aquila), Fara San Martino (provincia di Chieti) Cervara di Roma, Galtelli (provincia di Nuoro) e Melpignano (LE).
Nel Febbraio 2012 la Fondazione Banca del Monte di Lucca ha ospitato l’ultimo ciclo delle sue opere elaborate sul tema della Santa Zita di Lucca. Da San Martino affronta il mito del Sacro, all’interno del suo specifico linguaggio contemporaneo, attraverso cui emerge l’alternanza delle significazioni della temporalità: quella che promana dalla materia lignea di cui è costituito il quadro, insieme con l’incisione della grafite (il segno dell’artista) e quella formulata dalla manifestazione propria del tempo autentico di Jacopo.
Quest’ultima personale, ospitata al Museo Orfeo, riprende parte delle opere del ciclo della Santa, con qualche nuova elaborazione, che ne intensifica la mitologia.
La tecnica dell’artista ricava il disegno dalla sovrapposizione di una foto digitale. Da questa Jacopo ricava lo spolvero che va ad essere tracciato sulla tavola per formulare il disegno. Ne emerge il dialogo tra le venature del legno da cui nasce il gioco di due temporalità, ovvero il tempo dell’albero (il legno su cui si presenta l’opera) e il tempo inquieto tracciato dalla punta della matita dell’artista. Ogni venatura del legno rappresenta un anno di vita del legno tropicale, ( il tempo bloccato nella tela di legno), il disegno, invece, il tempo in divenire che va a sovrapporre e a integrare l’altro.
Le opere che hanno titolo: “Pane”, “foco”, “Pane” rappresentano, sempre all’interno dell’escatologia del Sacro, che rimanda alla figura del Cristo, il pane che lievita e che, avvolto nel panno, richiama la Sacra Sindone. Tutto il trittico si basa sul ciclo del Pane. Le opere si costituiscono come una visione anticonografica: nell’opera più grande viene ripresa l’immagine del corpo della Santa (Santa Zita), in cui figura la sagoma del sarcofago che, “ritagliata”, lascia trapassare la luce. La stessa luce, protagonista della visione che viene propagata, è quella che filtra dal resto dell’immagine mancante. “Dentro” e “tempo” sono parabole sempre religiose che rappresentano l’interno di una cattedrale. “Dietro” si richiama ad una architrave e ai resti di una Pieve Romanica dove la leggenda narra sia nata la Santa. La tecnica della gocciolatura usata che costituisce un discorso tipico dell’artista per far scivolare la matita sulla tavola si trova anche in altre opere e si propone di riuscire a lasciare una, tra queste tracce.
Lieve”, invece, riproduce l’immagine di un pozzo qualsiasi che richiama i miracoli compiuti dalla Santa quando ha trasformato l’acqua in vino (i miracoli di Cristo), si tratta anche in questo caso della trasformazione di un concetto escatologico.”Su questo”, opera definita dall’artista “off topic”, fuori dal ciclo della Santa, riproduce l’immagine di una cannonata esplosa su un muro di una chiesa e viene trasfigurata in forma di croce (per metafora rievoca la guerra, guerra anche “beata”-“beata” è colei che riporta la pace). Da quest’opera Jacopo ha in progetto il calco in un bronzo. E’ mancante, invece, in quest’esposizione al Museo Orfeo, l’opera “Silenzio”, donata alla Fondazione del Monte di Lucca, quella in cui l’artista ritaglia la figura del Sarcofago della “Santa” per farne trapassare la luce. Solo “Luce”, la definisce San Martino, affermazione che rielabora il detto “solo scripta” in “solo luce”. “Non solo sola” rappresenta, ancora il cammino notturno della Santa. “Ecce ancilla domini” formula una domanda: i gesti miracolosi della Santa rappresentati da un fascio di gigli sono dono o dannazione? Questi gesti bianchi precipitano dal cielo o scrociano addosso ai mortali?. “Nei tuoi occhi” richiama un paesaggio di montagne e di meditazione (un cammino spirituale). Il ciclo della Santa Zita innesta la significazione escatologica e nasce dalla visione di una domestica del ‘200, va ad inscenare i prodigi senza saper leggere e scrivere di Santa Zita, patrona di Lucca. Jacopo da San Martino intende la pratica artistica soprattutto come contemplazione e ricerca, in un continuo inesausto anelito che porta il suo gesto pittorico scarno e minimalista, ultracontemporaneo, ad avvicinarsi al sacro in maniera sincera e pura, con il segno scarno e secco della sua grafite. Talvolta inquietante, astratta e concettuale la sua maniera d’artista è quella che ci avvicina alla meditazione più profonda, è quella che ci conduce a pensare che noi, santi o più comuni mortali, senza tracce da lasciare siamo creature mute. Tutta l’opera di Da San Martino è un racconto spirituale, incentrato più sul sacro che sul santo, in cui il segno racconta il perdersi nella luce.



DEL SEGNO CHE RESTA
di Marco Palamidessi

Viviamo in un’epoca più che mai secolarizzata, dominata dalla febbre del consumo, dall’ansia di cogliere l’attimo che fugge; un’era controllata dalla razionalità della tecnica, in cui si presume che ispirandosi agli agenti economici e quantitativi, piuttosto che a quelli più umani e qualitativi, si compia la scelta migliore nel tentativo di massimizzare il senso delle proprie esistenze; un tempo in cui gli uomini sembrano dimenticarsi troppo spesso di Dio, creatori di arte compresi.
Jacopo Da San Martino intende la pratica artistica soprattutto come contemplazione e ricerca, in un continuo ed inesausto anelito che porta ad avvicinarsi al sacro in maniera sincera e pura. Jacopo concepisce il disegno come opera in sé compiuta, non come mero tracciato che precede e aiuta lo stendersi della pittura, o come atto grafico con cui fissare sulla carta l’idea primordiale, da cui scaturirà l’opera finale. Il disegno non è quindi una linea progettuale, ma la creazione definitiva: paradossalmente, Jacopo progetta addirittura il disegno stesso. Ogni immagine porta in sé la storia sempre diversa della sovrapposizione dei segni della matita e dei segni naturali nel legno delle tavole. Vista da vicino, l’opera di Jacopo appare nella sua veste informale e talvolta inquietante, ma è nella lontananza – quella che serve alle contemplazioni profonde, quella che rafforza e dà senso alla reverenza verso ciò che è sacro – che tutto prende forma, che le fattezze delle cose assumono le loro conformazioni realistiche.

L’omaggio che Jacopo Da San Martino ha fatto a Santa Zita, esempio tangibile di rispetto e concreta devozione, rimanda ad arcaiche simbologie e a scorci di paesaggi accarezzati dalla patina di un tempo ritrovato: l’osservatore ne riconosce la sacralità, nonostante questa abbia assunto forme nuove che hanno ridotto apparentemente la distanza da ciò che è profano. Disegnare Santa Zita è stato un po’ come pregare, un po’ come appropriarsi dei suoi simboli, dei segni che furono della Sua purezza e benevolenza verso il prossimo: carpire il Bello e il Buono di un’esistenza ascetica, devota, spirituale.
I miracoli così si leggono, per quello che ci insegnano e per ciò che ci lasciano. Tracce, segni, attraverso i quali il sacro si manifesta al mondo come epifania; cronache scritte in più tempi per mezzo delle molteplici sintassi e drammaturgie dell’arte: il tempo del legno che si fa supporto della visione come emblema della memoria del sacrificio cristiano; il tempo dei fatti, tatuati sulla tavola e accompagnati in punta di matita attraverso il tempo inquieto dell’artista; il tempo senza tempo di segni che parlano di noi nel mondo e al mondo. Noi, santi o comuni mortali, senza una traccia da lasciare siamo creature mute e senza destino.
Non essendo più espresso tramite una sintassi figurativa rigorosa e convenzionale, di più immediata riconoscibilità, oggi il sacro va ricercato e desiderato, forse come è giusto che sia, e la poiesis di Jacopo Da San Martino non ha nulla di prevedibile, retorico o conformista.

Tutto allora diventa un proscenio di riflessioni esistenziali, una frontiera di impegno spirituale, ma anche un ritorno alle origini, un’intima necessità di unirsi con la Natura. La genesi artistica è concepita come una meditazione: il supporto ligneo, per come si presenta, con le vie già impresse delle venature che accompagnano i gesti di Jacopo, ci fa percepire il grande rispetto che questo artista ha per la Natura e il Creato: la sua visione poetica è contemplazione, assoluta sintonia con il Tutto universale.
L’artista ammanta le opere di un silenzio che sa essere intimo e sicuro, eppure sofferto e grave come il piombo; quel silenzio è altresì contemplativo e caloroso, scintillante di luce propria, come l’oro. Liberando dalla tavola il corpo disteso dell’umile Santa domestica, Jacopo lascia l’astante alla libertà di colmare soggettivamente il vuoto rimasto con l’immagine che di Lei si porta dentro a livello emotivo e psicologico. Ed è proprio attraverso quel vuoto lasciato alla luce che passa il Divino, simboleggiando questo viaggio fra le opere che, se vogliamo, è celeste più che terreno. Sempre si cerca, qualche volta si trova una risposta. Mai si smette di indagare e, in silenzio, di pregare, ognuno con la propria lingua e la propria volontà.

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